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STORIA ED EVOLUZIONE DEI FORMATI CINEMATOGRAFICI, PARTE I: DAL KINETOSCOPIO AL MOVIETONE

Che ruolo hanno giocato i formati nella nascita della concezione moderna di Cinema?
A quali necessità la loro evoluzione ha risposto, e dove si pone il confine tra orientamento artistico e perfezionamento tecnico?
A questo e molto altro cercheremo di dare risposta, in tre articoli
 

70mm. IMAX. Ultra Panavision: nomi come questi affollano sempre più il nostro orizzonte quotidiano, quando si parla di Cinema.
Formati video e audio, sistemi di ripresa e proiezione, tecnologie all’avanguardia o tradizionali, oramai compaiono a caratteri cubitali sulle locandine e sui poster di ogni multisala, vengono declamati trionfalmente nei trailer e sono sempre più al centro della pletora di strumenti a disposizione del reparto marketing.
Sembra dunque che questi aspetti del fare cinema stiano suscitando interesse da parte del pubblico e che abbiano effettivamente un impatto sulla ricezione dei film, impatto che trapassa l’orizzonte ristretto della critica e raggiunge una dimensione di pubblico più ampia, generalista, diffusa.
Non è certamente un caso se assistiamo oggi a un ripopolarsi di lavori che esibiscono fieri l’utilizzo di questa o quella tecnica, di una pellicola particolare o di una lente inusuale.
Insomma, è questa una fase di sperimentazione e innovazione, che personalmente credo possa solo far del bene alla varietà e al livello qualitativo dei prodotti che ci vengono proposti, magari perfino suscitando curiosità e attenzione su diversi aspetti della loro fruizione.
Ma cosa sono, davvero, i formati cinematografici?
Suddividerò la trattazione dei formati cinematografici in tre articoli, nei quali cercherò di offrire una panoramica non eccessivamente tecnica delle modalità di ripresa e proiezione più celebri, dei rispettivi effetti e dell’accoglienza storica che hanno ricevuto da parte di pubblico e industry, in ultima istanza, lo vedremo, il fattore forse più rilevante per la “sopravvivenza” di un formato.
In breve, l’espressione “formato cinematografico” (o in inglese film format), ha assunto nel tempo uno spettro di significati dall’estensione proporzionale allo sviluppo tecnologico subito dal mezzo. In sostanza, essa descrive l’insieme di caratteristiche e proprietà fisiche del supporto madre dell’immagine e del sonoro di una proiezione cinematografica: la pellicola (film), appunto.
A questa definizione corrisponde una moltitudine di aspetti tecnici, i cui più rilevanti e noti sono forse rappresentati dalla larghezza del film, espressa in millimetri (8, 16, 35, 70mm…); dal tipo di sensibilità ai colori della superficie fotochimica destinata all’esposizione (pellicole pancromatiche, monocromatiche, ortocromatiche, etc. ); e, un po’ più raramente, dal sistema meccanico con cui avviene il trascinamento della pellicola, spesso espresso con il numero di perforazioni presente ai suoi bordi.
La bellezza e il fascino dell’analogico - a partire dalla sua espressione artistica principe, la fotografia (#filmisnotdead) - abbraccia un orizzonte sterminato di possibilità di sperimentazione e novità, che ha permesso nel tempo di raggiungere soluzioni creative e immaginifiche straordinarie, e che oggi sta vivendo, tra l’altro, un revival notevole: ma questa è un’altra storia e, per la vastezza e bellezza dell’argomento probabilmente merita un articolo a sé. 
Dunque immergiamoci nella storia dei formati: un susseguirsi di miglioramenti tecnici e d'ambizioni di ingegneri e direttori della fotografia, e dell’inevitabile risposta del pubblico a tutti questi, a partire dal primo, meno noto, impianto di “proiezione”: il Kinetoscopio.
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Parte prima - La preistoria
ovvero degli esordi e della nascita della concezione moderna di Cinema
I. Kinetoscopio 
Introdotto e brevettato da William Dickson, allievo dell’illustre scienziato Thomas Edison, il Kinetoscopio si data intorno all’ultimo decennio del XIX secolo, ed è da molti considerato il primo vero sistema di proiezioni d’immagini a finalità d’intrattenimento, anche se fu ufficialmente preceduto da altri primordiali apparecchi capaci di proiettare pochi frame e prevalentemente utilizzati in ambiti scientifici.
Consisteva in un sistema mono-spettatore in cui l’utilizzatore, azionando il marchingegno tramite una manovella, osservava la successione dei fotogrammi da un occhiello che dava all’interno di un involucro solido in cui la pellicola girava.
Apparecchio sicuramente rudimentale, che però esibiva alcune caratteristiche sorprendentemente moderne come l’utilizzo prevalente di pellicola 35mm e di un notevole frame rate, che raggiungeva in alcuni casi i 48 fotogrammi al secondo (ancora oggi è prevalente l’utilizzo della velocità standard di 24 fps).
Per ragioni squisitamente meccaniche, a questa velocità (essenziale per l’illusione ottica del movimento) il Kinetoscopio non era in grado di ospitare grandi quantità di pellicola, implicando necessariamente una durata minima delle rappresentazioni, al massimo di pochi secondi.
Il suono era chiaramente assente e, generalmente, l’inizio della “proiezione” (difatti assente) veniva sincronizzato con una registrazione riprodotta esternamente, tramite altro dispositivo.
Frame di una delle prime produzioni di pochi secondi
Film rilevanti
La filmografia relativa a questo primitivo sistema ideato da Edison è assai esile.
Difatti, il sistema era progettato per uso domestico e mirava appunto alla commercializzazione privata, un concetto più simile all’home theatre che al moderno cinema.
Degni di menzione sono probabilmente solo alcuni brevissimi lavori di Dickson stesso, intitolati Dickson Greeting (~3 sec.) e Blacksmith Scene (~35 sec.), il quale merita però di essere citato per essere uno dei primi film (1893) a essere proiettato pubblicamente, ovvero per un’audience pagante.
Le palesi difficoltà tecniche di riproduzione e l’antieconomicità del mezzo portarono ben presto all’abbandonare i piani industriali inizialmente progettati, per essere prontamente affiancato e sostituito da altri sistemi in quella che era sicuramente un’industria fiorente e proattiva, capace in pochi anni di migliorare drammaticamente la qualità e la fruibilità del girato.
Manifesto pubblicitario di una sala cinematografica parigina dei primi del '900
II. Cinematografo 
Eccoci dunque al celeberrimo apparecchio dei fratelli Lumière, sul quale la stragrande maggioranza degli aneddoti sull’origine del cinema si fonda: le Cinématographe.
Introdotto nel 1895, i miglioramenti rispetto ai coevi sistemi di proiezione furono subito manifesti, a partire dalla fruibilità, che superava il modello mono-spettatore di Dickson, difatti proiettando per la prima volta su un grande schermo e così rendendo l’invenzione commercialmente promettente.
Inoltre, il cinematografo dei Lumière garantiva una superiore stabilità delle immagini grazie al perfezionamento del sistema a perforazioni sulla pellicola, e la possibilità di proiettare in maniera continuativa anche per diversi minuti, stimolando così per la prima volta una vera e propria industria cinematografica, ovvero di produzione e distribuzione di contenuti visivi.
 
Corrisponde così a questo periodo il primo diffondersi delle sale cinematografiche, in particolar modo nell’avvenente e industriosa terra degli Stati Uniti d’America, dove sotto il nome di nickelodeons (dal prezzo del biglietto, 5 cents = nickel) divennero un importante centro di attrazione popolare e non.
Ulteriore ragione di successo del cinematografo fu la parziale canonizzazione degli standard di ripresa e proiezione: con esso, si stabilì l’aspect ratio di 1.33:1 (o 4:3, se preferite), che dominò il formato video fino all’avvento (lo vedremo) dell’Academy Ratio.
Il frame rate dei filmati fu fissato a 16 fotogrammi per secondo, diventando appunto uno standard del tempo per resa visiva e praticabilità tecnologica.
 Come detto, si confermò l’utilizzo predominante della pellicola 35mm perforata ai bordi, garantendo una stabilità e una fluidità di movimento mai raggiunta prima.
Infine, per quanto riguarda il suono bisognerà aspettare ancora un paio di decenni durante i quali il sonoro, che consisteva prevalentemente in musica d’accompagnamento, veniva riprodotto autonomamente alla proiezione, tramite dispositivi sincronizzati e calibrati manualmente.
Film rilevanti 
Nonostante i notevoli progressi rispetto ai sistemi precedenti, neppure le produzioni dell’epoca del cinematografo poterono superare i pochi minuti di durata.
Tuttavia, merita attenzione il prodotto più noto degli ultimi anni del XIX secolo, a firma degli stessi fratelli inventori, ovvero L’uscita dalle officine Lumière (1895): un filmato di meno di un minuto che ritrae la fine della giornata lavorativa di un gruppo di dipendenti che si appresta a lasciare la fabbrica.
Come accennato in precedenza, l’importanza storica di quest’invenzione per la quale essa è stata spesso considerata un esordio assoluto per il cinema, risiede non tanto nella tecnica di proiezione o nel formato audiovisivo, quanto nell’essere il primo medium di un’esperienza cinematografica condivisa, vale a dire con un pubblico che assisteva collegialmente alla proiezione.
E questa caratteristica, perfino oggi che vi è l’imbarazzo della scelta nella modalità di fruizione di un film, resta imprescindibilmente legata a cosa significa andare al cinema.

Enoch Rector raffigurato all'interno della sua creazione dal San Francisco Chronicle, marzo 1897
III Veriscope 
Gli ultimi anni dell’800 si confermarono anni di fervente sviluppo e innovazione cinematografica, culminando in quello che da molti è ritenuto il primo film della Storia, ovvero The Corbett - Fitzsimmons Fight (1897), a firma dell’americano Enoch Rector.
A renderlo un unicum per il tempo fu la straordinaria durata di 100 minuti, che fece del prodotto di Rector il primo lungometraggio della Storia.
Sicuramente meno nota del Kinetoscopio di Edison o del Cinematografo dei Lumière, l’invenzione dell’inventore americano fu semplicemente una risposta ingegnosa a un problema pratico: Rector, pubblicista statunitense di boxe, aveva l’ambizioso progetto di filmare e mostrare a un grande pubblico un incontro di pugilato.
L’ostacolo principe, chiaramente, consisteva nell’impossibilità tecnica di girare filmati di durata maggiore di pochi minuti.
Rector non fece nient’altro che creare una camera gigantesca, capace di accogliere una quantità enorme di pellicola e d’includere al suo interno, quando in azione… lui e il suo team (di almeno tre persone).
Immaginate dunque una struttura in legno a grandezza umana, con piccole finestrelle rosse e tre lenti sporgenti da una delle pareti: ed ecco dunque che avrete il Veriscope, ovvero… la cinepresa più grande di sempre.
Il funzionamento alla base del Veriscope corrispondeva in tutto e per tutto a quello delle moderne macchine analogiche, con l’unica differenza che per rendere sostenibile l’esposizione di una tale mole di film (fonti parlano di 14 chilometri di pellicola) era necessaria la presenza fisica di tecnici che eseguissero piccole operazioni di controllo durante la fase di ripresa.
Ciò fu reso possibile con la realizzazione di quella che era una enorme darkroom (camera oscura), in cui gli operatori potessero maneggiare la pellicola non esposta (pellicola che ai tempi era prevalentemente ortocromatica, ovvero insensibile alla luce rossa proveniente dalle finestrelle) e alternare sequenzialmente le tre camere installate nell’apparato.
Sono poche le testimonianze fotografiche dell’apparecchio, ma riporto qui una delle foto della macchina in azione, proprio durante il celebre incontro di pugilato. Se aguzzate la vista, la troverete appena dietro il ring, in alto a destra, con tre fori in corrispondenza delle tre lenti.
Il Veriscope è visibile dietro il ring, in alto a destra. Foto di Hugh Castle (scattata illegalmente)
Infine vale la pena sottolineare che il girato finale, come detto di un'ora e quaranta minuti, fu il primo a essere ripreso su pellicola (Kodak) 63mm, dunque effettivamente il primo grande formato della storia (1.66:1 di aspect ratio).
Dopo una delicata fase di sviluppo e montaggio del film, Rector ebbe la sua première il 22 maggio del 1897, alla New York’s Academy of Music.
Il film si rivelò un successo tanto che Rector, come i Lumière prima di lui, partì per un tour in Australia, alle Hawaii e nel Regno Unito, raggiungendo la cifra mai toccata prima del milione di dollari incassati, di cui si mise in tasca circa… nulla.
Infatti, nonostante il successo ottenuto, la produzione riuscì appena a fare break-even, ovvero a recuperare i costi investiti nella mastodontica realizzazione.
IV Movietone 
Chiuderei la “puntata” sulla preistoria cinematografica con il formato che segnò di fatto la trasformazione più epocale che il cinema abbia mai esperito: l’avvento del suono.
Occorre fare un salto temporale di circa tre decenni, nei quali la tecnologia compì enormi passi avanti per quanto riguarda la riproduzione visiva delle immagini e la durata massima di riprese e proiezioni.
L’industria cinematografica era ormai prospera e, in particolare negli Stati Uniti, i più importanti studios erano già in competizione tra loro per la realizzazione del primo sistema di proiezione con audio integrato.
Warner Bros. sviluppò il sistema Vitaphone, nient’altro che un impianto sincronizzato di proiezione e riproduzione audio, che utilizzava dei 33 giri come traccia sonora. Il sistema fu utilizzato in alcuni celebri film come Il cantante di Jazz (1927) e permise di aggiungere il sonoro anche a lavori predatati, come avvenne per il popolarissimo Ali (1927) di William Wellman.
Parallelamente, RCA e Fox erano al lavoro su una tecnologia più sofisticata, quella del sonoro ottico, ovvero stampato sul bordo della pellicola.
La tecnologia di
RCA prese il nome di Photophone mentre Fox utilizzò la denominazione Movietone.
Il Movietone divenne virale e tutt’oggi viene di fatto ricordato come il sistema che interruppe il dominio del cinema muto.
Esempio di negativo Movietone, con il sonoro ottico ben visibile sulla sinistra
Film rilevanti 
Tra le produzioni più rilevanti abbiamo sicuramente Aurora (1927), di F.W. Murnau.
Il padre dell’Espressionismo Tedesco, ormai una figura già saldamente affermata del panorama cinematografico dell’epoca, scelse il sistema della Fox per il suo primo lavoro girato in terra americana, film che poi gli varrà l’Oscar per il Miglior Film alla prima edizione degli Academy Awards, nel 1929.
I film di questa categoria vanno ancora considerati film muti, poiché sprovvisti di dialoghi, ma furono i primi a presentare una colonna sonora e degli effetti audio incorporati nella proiezione, grazie appunto alle strips audio apposte sulla pellicola.
In merito al formato della riproduzione, il Movietone utilizzava quella che era diventato un canone, ovvero una pellicola 35mm a 4 perforazioni, la quale veniva proiettata con un’aspect ratio di poco meno di 4:3, dato che una piccola porzione della “larghezza” del fotogramma veniva ora occupata dalla traccia audio.
Siamo soltanto al terzo decennio del secolo scorso, il suono è appena stato introdotto e ha già cambiato per sempre il modo in cui il cinema si esprimerà. Siamo lontani dai fasti del widescreen, il formato panoramico che rappresenterà una vera e propria svolta nel modo di concepire il Cinema.
Tuttavia, è già possibile discernere in ciò che abbiamo visto alcuni concetti chiave nella formazione di un ideale moderno di produzione e fruizione cinematografica: il passaggio da esperienza individuale a condivisa, la necessità di raccontare storie e non solo fatti, la tendenza del mezzo a trasformarsi in prodotto, la concorrenza tra gli studios per accaparrarsi il mezzo più innovativo, più sensazionale, più spettacolare.
Di questi temi e molto altro parleremo nel secondo capitolo, dove li vedremo al centro della successiva evoluzione dei formati, queste cornici più o meno grandiose che in un mercato sempre più competitivo hanno costituito un vantaggio indispensabile nella diffusione di questa o quella tecnologia.


STORIA ED EVOLUZIONE DEI FORMATI CINEMATOGRAFICI, PARTE II: ACADEMY, CINERAMA, CINEMASCOPE e TODD-AO

Che ruolo hanno giocato i formati nella nascita della concezione moderna di Cinema?
A quali necessità la loro evoluzione ha risposto, e dove si pone il confine tra orientamento artistico e perfezionamento tecnico?
Il primo capitolo di questo trittico sulla storia dei formati del Cinema si è concluso negli anni ’20, che abbiamo visto essere stata epoca di grande innovazione nella fiorente industria che il cinema stava diventando.
 L’avvento del suono, i primi tentativi di approcciare il formato panoramico, la stabilità e la fluidità dell’immagine: questi e molti altri erano i temi al centro della contesa tra i vari studios, rispettivamente impegnati nell'offrire al pubblico una nuova esperienza audiovisiva marchiata Fox, RKO, Metro-Goldwin-Meyer… e via dicendo.
Tuttavia, questa molteplicità di sistemi e tecnologie concomitanti ebbe in parte un esito anti-economico, rendendo di fatto oltremodo caro e artificioso distribuire e proiettare in dimensioni costantemente in evoluzione.
Inoltre, occorre sottolineare come la pluralità di formati sembrò disorientare l’audience del tempo, abituata per quasi vent’anni al 4:3 dei film muti.
Più volte questa situazione di generale incertezza e scarsa efficienza pratica condusse alla sottoscrizione formale di accordi tra le case di produzione, il più famoso dei quali divenne quello ad opera dell’AMPAS (l’Academy of Motion Picture Arts and Sciences), che stabilì il nuovo standard di ripresa e proiezione in 35mm, destinato a conservarsi per diversi decenni… e a perdurare qui e là financo ai giorni nostri.
Parte seconda - Dagli anni ’30 al dopoguerra
ovvero dell’omologazione del rapporto d'aspetto classico e dell’affermazione del formato panoramico
I. Academy Format 
Trattandosi più di una convenzione che di un effettivo avanzamento tecnico, il formato targato Academy presentava caratteristiche ereditate dalle diverse tecnologie in circolazione all’epoca, cercando di combinarle al fine d’ottenere un modello standard universalmente riconosciuto.
Come abbiamo visto, l’introduzione del sonoro costituì una vera e propria rivoluzione per l’industria cinematografica, interessando aspetti molto al di là delle trasformazioni tecniche che esso implicava.
Alfred Hitchcock, tra i più grandi cineasti di ogni tempo, nella celebre intervista con François Truffaut si disse convinto che il suono costituì un vero e proprio spartiacque nella storia della Settima Arte, ed è evidente tra l’altro che non sia per nulla persuaso che esso abbia rappresentato un miglioramento nel modo di far Cinema.
Michel Hazanavicius con il suo direttore della fotografia per The Artist (2011) Guillaume Schiffman
Una cosa, tuttavia, era certa: l’affermazione del sonoro ottico in pellicola (Fox Movietone) deformò lievemente l’immagine proiettata nelle sale, sformandone l’aspect ratio verso uno spiacevole 1.17:1.
Insomma, la strip posta in prossimità del negativo determinava un meccanico, inevitabile restringimento del 35mm esposto, mentre ne lasciava invariata l’altezza.
L’audience, dotata di visione binoculare, più affine a un campo visivo “largo”, sopportò malamente il mutamento del canone di proiezione e fu questo, insieme alla menzionata impraticabilità commerciale, a condurre alla proposta unificatrice dell’Academy, che nel 1932 suggerì e ottenne l’“abbassamento” dell’altezza del fotogramma, pur conservandone il numero di perforazioni.
Fu dunque inspessendo le cosiddette frame lines, ovvero lo spazio non esposto tra i fotogrammi, che si giunse a un primo standard ufficiale di ripresa e proiezione ufficiale.
  L’ aspect ratio o rapporto d’aspetto risultò corrispondente a 1.375:1, leggermente più panoramico del tradizionale 4:3.
Senza cadere troppo in beceri tecnicismi (cit.), ciò richiese un contestuale aggiustamento dei piatti di scorrimento delle bobine e della velocità cui la pellicola veniva prima esposta (in fase di lavorazione) e poi irradiata (proiezione) al fine di mantenere costante il frame rate di 24 fps.
Comprensibilmente, la modifica degli apparati tecnici richiese qualche tempo e incontrò frizioni di minore entità, ma il generale beneplacito dell’ industry (d’altronde vera fautrice della convenzione) riuscì ben presto ad imporre il nuovo standard.
Vien da sé che i risultati furono senza dubbio gli sperati: per oltre un ventennio, ovvero fino all’avvento del widescreen, la stragrande maggioranza delle produzioni seguì questo paradigma.

Frame da Cold War (2018), Paweł Pawlikowski

Film rilevanti 
Come detto, la quasi totalità dei film delle decadi 1932-1953 furono realizzati in Academy Format, rendendo nei fatti una lista di titoli quantomeno ridondante.
Tuttavia, forse vale la pena nominare alcuni pezzi da 90 come Casablanca (1942) o King Kong (1933), campioni d’incassi dell’epoca e icone del cinema fino ai giorni d’oggi.
Più interessante, io credo, è notare come il formato abbia acquistato uno status particolare nell’immaginario comune di filmakers e spettatori, riuscendo a sopravvivere fino ai giorni nostri nell’opera di registi influenti e autorevoli del panorama moderno.
Wes Anderson con il suo Grand Budapest Hotel (2014) o Paweł Pawlikowski con i suoi splendidi Ida (2013) e Cold War (2018) ne sono tra i più illustri esempi.
II. Cinerama 
Siamo nel secondo dopoguerra, l’economia vive una robusta fase di ripartenza e forse il clima di distensione post-bellico stimola nei paesi occidentali l’industria dell’intrattenimento, che vive difatti una nuova golden age.
Un inventore americano di nome Fred Waller è specializzato in sistemi di ripresa e proiezioni a più apparecchi, e già prima della guerra aveva ideato e realizzato il Vitarama, una rudimentale versione dell’invenzione per cui divenne poi noto nell’ambiente cinematografico.
Il 30 settembre del 1952, dopo anni di ideazione, ricerca e sperimentazione, Waller e i suoi presentano a Broadway il cortometraggio dimostrativo This is Cinerama (1952).
Nasce qui, nella New York dei primi anni ’50, il Cinerama, ossia l’origine del formato panoramico (all’origine anche del nome, neologismo che deriva dalla fusione dei vocaboli cinema e panorama).
L’idea alla base del Cinerama precede la sua introduzione di quasi 25 anni: il Napoléon, film di Abel Gance del 1927, presentava una sequenza finale che veniva proiettata in contemporanea da tre proiettori su tre schermi, componendo un quadro di tre volte più largo del formato nativo 4:3.
Ovviamente ciò comportava una triplice e altrettanto simultanea cattura delle immagini su pellicola in fase di ripresa.
Cinerama segue scrupolosamente lo stesso procedimento, espandendone la capacità inclusiva e coinvolgente attraverso un’ulteriore congegno tecnico: lo schermo utilizzato per la proiezione è fortemente concavo, fino a curvature di 146° orizzontalmente e 55° verticalmente, appagando così le facoltà della vista umana, binoculare e dotata di visione periferica.
Per un’audience come quella del tempo, l’esperienza audiovisiva risultante fu senza precedenti.
Fino ad oggi, nessun formato nella Storia del Cinema ha segnato uno solco simile con il predecessore, e di certo nessun altro ebbe un effetto parimenti rivoluzionario sul canone estetico del pubblico d'allora e delle generazioni a venire.
L’avventura sensoriale unica che il Cinerama rappresentava contribuì inoltre alla nascita di un’idea molto attuale - quella di film-evento - per il quale prese piede lo sviluppo di strutture capaci di accogliere una tale modalità di riproduzione e fruizione del prodotto cinematografico.
Ne è un celeberrimo esempio il Cinerama Dome di Hollywood, dichiarato patrimonio storico-culturale di Los Angeles e ancora in attività: al centro di un vero e proprio culto cinefilo, come si evince anche dall’ultimo lavoro di Quentin Tarantino C’era una volta a... Hollywood (2019), in cui compare per qualche istante.
Hollywood è inoltre conosciuta come "la culla dello spettacolo", non a caso proprio qui sono diventate famose le più grandi stelle del cinema. Tra questi non possiamo non citare Brad Pitt, George Clooney, Leonardo DiCaprio, Matt Damon, Ben Affleck, Johnny Deep, Keanu Reeves, Bradley Cooper, Ryan Reynolds, Chris Pratt e Robert Downey Jr.
Schema minimalista della struttura di proiezione
Quasi a mo’ di contrappasso dantesco, le spettacolari ambizioni del Cinerama e l’aura di grandiosità che arrivò presto a circondare il formato, furono anche la sua condanna: esso necessitava di opportune infrastrutture sia in fase di lavorazione che di proiezione e poche erano le sale capaci di offrirle.
Di conseguenza, spesso mancava la volontà imprenditoriale da parte degli studios di investire in progetti di questo tipo, difatti non alimentando quel sistema di feedback-loop tra domanda e offerta alla base della diffusione di qualsiasi prodotto.
Insomma, l’avvento del formato widescreen e con esso il definitivo mutamento dell’ideale del pubblico di esperienza cinematografica si deve al Cinerama, eppure l’artificiosità tecnica che esso esigeva fu anche, in qualche modo, la ragione del suo insuccesso commerciale.
In sintesi, ricapitoliamone le caratteristiche tecniche.
Il Cinerama è stato il primo sistema ad approcciare il formato panoramico, raggiungendo (per costruzione) l’impressionante rapporto d’aspetto di 2.6:1; infatti, alla base del suo funzionamento vi era la disposizione semicircolare di tre proiettori, i quali proiettando simultaneamente tre formati standard 4:3 adiacenti componevano un unico quadro su uno schermo appositamente curvato, così da rendere l’esperienza di sala eccezionalmente immersiva e spettacolare.
La pellicola utilizzata era perciò l’ormai consueta 35mm, mentre il sonoro era stampato su una traccia magnetica apposta a una delle tre pellicole, anch’esso in una forma rinnovata, quella dei sette canali audio.
Infine, le sopramenzionate arene, create ad hoc per il formato, erano dotate di una distribuzione dei diffusori simile a quella dei sistemi surround moderni, con cinque casse dietro lo schermo, due laterali e due poste alle spalle della platea dell’auditorium.

Flano del Cinerama Dome di Hollywood, Los Angeles: ancora oggi sala importante in termini di promozione e prestigio

Film rilevanti 
Come accennato, le difficoltà causate dalla complessità realizzativa dei film in Cinerama e la problematica distribuzione delle produzioni fecero sì che il formato non prese mai il volo come soluzione universale o quantomeno diffusa.
Difatti sono pochi i film realizzati nativamente in Cinerama, molti più invece quelli che derivarono da surrogati successivi, girati e proiettati da una sola macchina.
Merita certamente menzione il primo lavoro, con cui il formato venne presentato, This is Cinerama (1952).
Altri titoli comprendono Avventura nella Fantasia del 1962, film fantasy sui fratelli Grimm premio Oscar 1963 per i Migliori Costumi e La Conquista del West, western dal cast straordinario John Wayne, James Stewart, Henry Fonda, Gregory Peck, Eli Wallach, Lee Van Cleef solo per menzionarne alcuni): entrambi del 1962 e di grande successo di botteghino.
Una decina d’anni dopo la sua introduzione, constatate le limitate facoltà commerciali del formato, fu sostituito dal cosiddetto single-camera Cinerama, un sistema che di Cinerama non aveva quasi niente, se non un simile rapporto d’aspetto; fu difatti un banale rebranding commerciale, sotto il quale si celavano formati come l’Ultra Panavision (lo vedremo), che utilizzavano per la prima volta pellicole a 65 e 70mm e lenti anamorfiche.
Fu insomma con l’evoluzione in senso pragmatista dei formati che Cinerama acquisì lo status semileggendario di cui gode tutt’oggi, conservandone idealmente il prestigio e l’autorevolezza, basti pensare che le proiezioni di capolavori e colossal come 2001: Odissea nello Spazio (1968) e Lawrence d’Arabia (1962) vennero presentate nel nome di Cinerama 70mm, pur essendo girate in Super Panavision 70.
III. Cinemascope 
Come abbiamo avuto modo di discutere, furono spesso le logiche commerciali i veri motori dello sviluppo e della diffusione di nuovi formati cinematografici.
Abbiamo visto, ad esempio, come i primissimi sistemi di ripresa e proiezione si avvicendarono a seguito di significativi miglioramenti della qualità e della quantità delle immagini proiettabili
(si pensi al Cinematografo o al Veriscope).
Similmente, formati destinati al consumo individuale o dalla riproduzione proibitivamente artificiosa, caratteri rispettivamente propri del Kinetoscopio e del Cinerama, vennero presto esclusi o sostituiti da altri apparecchi capaci di coniugare gli attributi utili dei relativi sistemi a un maggiore potenziale commerciale.
È questo anche il caso del Cinemascope, il celeberrimo e gergale ‘Scope di cui tutt’oggi sentiamo gli echi sui set delle produzioni più moderne.
Il Cinemascope fu la risposta commerciale a due fenomeni, principalmente: l’ingresso nel mercato di un temuto competitor, la televisione, e la mutata estetica del pubblico che ormai prediligeva il formato panoramico e ad esso associava i benefici dell’andare al cinema.
Con il Cinemascope, inoltre, si ovviava ai costi insostenibili dei sistemi a proiezione multipla simil-Cinerama.
Il widescreen era ottenuto non tramite la disposizione multipla di più quadri, e neanche con l’utilizzo di pellicole dotate di maggiore gauge (larghezza), la quale avrebbe comportato, tra l’altro, una relativa (e analogamente costosa) modifica degli impianti di proiezione; bensì, lo ‘Scope approcciava il panoramico con l’ausilio delle leggi dell’ottica: assistiamo qui, nei primi anni ’50, all’ingresso in scena delle lenti anamorfiche.
Fu l’allora presidente della Fox, Spyros Skouras, a comprendere la necessità di salvaguardare il vantaggio competitivo del cinema con la preservazione del formato panoramico, pur mantenendo le spese di produzioni entro soglie accettabili.
A tal fine studiò le lenti brevettate trent’anni prima da un astronomo francese, Henri Chrétien, capaci di generare rapporti d’aspetto fino a 2.66:1 a partire dalle pellicole tradizionali 4:3 del cinema muto.
Tenendo conto dell’ormai consolidata striscia magnetica per l’audio, i film in Cinemascope raggiungevano rapporti d’aspetto tra i 2.35:1 (tutt’ora popolarissimo) e i 2.55:1, in media quasi il 90% più ampi del canone tradizionale rappresentato dall’Academy Ratio.
Dagli studi Fox vennero inoltre introdotti degli adattatori per i proiettori esistenti, rendendo così l’invenzione anche economicamente promettente.
Tra le innovazioni tecniche più importanti dell’era Cinemascope vi è da menzionare anche la ridotta larghezza delle perforazioni della pellicola (come detto ancora 35mm), ennesimo dettaglio che testimonia sull’assoluta priorità di ottenere un’immagine più panoramica possibile (per mezzo di una maggiore superficie d’esposizione).
Il funzionamento alla base del sistema anamorfico si compone in entrambe le fasi di ripresa e proiezione.
In prima istanza, l’utilizzo delle lenti anamorfiche montate sulla macchina da presa permetteva l’“immagazzinamento” di un quadro panoramico sul supporto 35mm, risultando dunque, dopo lo sviluppo, estremamente compresso, “schiacciato” alla vista.
In fase di proiezione, l’utilizzo degli appositi adattatori e di lenti dedicate consentivano la distensione orizzontale del positivo, riportando alla condizione originaria il quadro e ottenendo così l’effetto desiderato.
Il successo fu istantaneo e l’impossibilità di brevettare il sistema (a causa della precedente invenzione di Henry Chrétien), consentì lo sviluppo in parallelo di una varietà di tecnologie provenienti da tutti gli studios dell’epoca, che sotto il peso della competizione perfezionarono e superarono l’iniziale progetto Cinemascope.
Le lenti Panavision si affermarono come state of the art dal ’58 in poi, sostituendo di fatto il prodotto Fox.
Dietro le quinte de Il Disprezzo (1963), Jean-Luc Godard
Film rilevanti
Primo e tutt’ora tra i più famosi lavori girati in Cinemascope è La Tunica (1953), diretto da Henry Koster e con una celebre interpretazione di Richard Burton.
Altri titoli noti comprendono Il ponte sul fiume Kwai (1957) di David Lean, capolavoro fra i primi a denunciare l’assurdità della guerra e vincitore di ben 7 Premi Oscar e Il disprezzo (1963) di Jean-Luc Godard, film tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia e prodotto da Carlo Ponti.
La lavorazione di quest’ultimo ebbe tra l’altro una storia interessante - come d’altronde spesso è stato il caso con Godard - e vide nomi altisonanti come i nostri Monica Vitti, Sophia Loren e Marcello Mastroianni orbitare attorno alla produzione; il padre della Nouvelle Vague si oppose però a tutti, prediligendo attori francesi tra cui la Brigitte Bardot e Michel Piccoli, addirittura arrivando a scritturare il grande regista dell’Espressionismo tedesco Fritz Lang (nel ruolo di se stesso).
In sceneggiatura è proprio Lang a criticare - metacinematograficamente - la scelta del Cinemascope, con un commento tagliente che, tradotto, doveva fare più o meno così:
"[Cinemascope] non è fatto per essere usato sugli esseri umani.
Sembra adatto solo a serpenti e funerali."
Nonostante ebbe nei fatti breve vita, Cinemascope costituì un passo decisivo nello sviluppo dei formati panoramici e la sua fama gli permise di ritornare nei decenni a venire, fino alle recenti apparizioni in blockbuster come Jurassic World - Il regno distrutto (2018) o Deadpool 2 (2018).
IV. Todd-AO 
Come detto in precedenza, gli anni ’50 furono un’epoca di grande ricerca per quanto riguarda i formati panoramici.
Sulla scia dell’antieconomico Cinerama emersero una grande quantità di soluzioni che proponevano modifiche alle fasi di ripresa o proiezione, cercando di contenerne i costi e allo stesso tempo di ottenere un’immagine accettabilmente panoramica. 
Todd-AO fu una soluzione in grande formato sviluppata da Mike Todd nel 1955, produttore di Broadway che in passato aveva collaborato all’introduzione dell’impianto a tre cineprese.
Utilizzava in fase di lavorazione pellicole 65mm con le tradizionali lenti sferiche (contrapposte alle anamorfiche che caratterizzavano il Cinemascope), mentre impiegava una maschera apposita per l’adattamento del positivo alla dimensione del piatto di proiezione (70mm).
Todd-AO raggiungeva l’aspect ratio di 2.20:1, minore sia rispetto al Cinerama sia al Cinemascope, tuttavia ritenuto sufficiente nella maggior parte delle produzioni.
Inizialmente le ambizioni del formato erano, testualmente, “di ottenere l’effetto Cinerama, ma da un buco [proiettore, ndr] solo”; difatti, le prime proiezioni avvennero in cinema adeguatamente attrezzati con schermi curvi e, per sopperire all’assenza dei proiettori multipli, dotati di lenti estremamente grandangolari.
La versione originale di Todd-AO prevedeva inoltre un’incrementata capacità di fotogrammi al secondo (30 fps contro i convenzionali 24 fps), al fine, si credeva, di ottenere una visione più fluida delle immagini.
Entrambi i propositi vennero presti abbandonati, fondamentalmente per le stesse ragioni per cui incontrarono ostacoli in passato: in assenza di strutture adeguate (il fenomeno dei Multiplex era ancora lungi dal realizzarsi), la manutenzione degli schermi risultava troppo onerosa, mentre lo scorrimento più veloce della pellicola provocava un surriscaldamento spesso difficile da gestire; inoltre, la conversione dei rulli in 35mm risultava essere problematica, e ciò costituiva un enorme svantaggio per la distribuzione, dato che ancora la stragrande maggioranza delle sale non erano attrezzate.
Sfumate le aspirazioni prettamente visive per l’evidente impraticabilità delle soluzioni proposte, la formula definitiva del Todd-AO si distinse dalle concorrenti per la qualità del sonoro.
I sei canali magnetici posti sul 70mm venivano distribuiti tra gli speaker della sala affinché si ottenesse un effetto surround particolarmente potente: cinque raggiungevano i diffusori dietro lo schermo e i restanti venivano cosparsi per la sala seguendo i dettami degli ingegneri del suono.
Film rilevanti 
Le menzionate qualità sonore del Todd-AO lo resero popolare in particolar modo tra i musical.
Difatti, tra i film più noti prodotti con questa tecnologia si annoverano Oklahoma! (1955) e Tutti insieme appassionatamente (1965), vincitori rispettivamente di 2 e 5 Premi Oscar (il secondo divenne anche il film con il maggiore incasso della storia, superando Via col Vento (1939) senza il calcolo dell'inflazione).
Ulteriori produzioni al di fuori della sfera dei musical sono La Battaglia di Alamo (1960) di John Wayne e Airport (1970) di George Seaton, primo capitolo di una serie dal grande successo commerciale.
Durò relativamente poco, e dopo i primi anni ’70 scomparve dalle scene.

Conclusione PARTE II

In questo secondo episodio abbiamo avuto modo di concentrarci sulla nascita del formato panoramico e sulla sua immediata conquista del canone estetico del pubblico. Dopo quasi vent'anni di produzione e riproduzione fondamentalmente standardizzate (secondo la formula dell'Academy Format), l'ingresso in scena di un temuto competitor, la televisione, stimolò enormemente il processo d'innovazione e differenziazione dei prodotti destinati al cinema, fino agli spettacolari esiti che abbiamo visto, spaziando dalla sperimentazione sulle pellicole e sulle cineprese sino all'interessamento di schermi, lenti e diffusori sonori.Nell'ultima parte di questo trittico sull'evoluzione dei formati affronteremo una fase di perfezionamento tecnico del mezzo, che in prima approssimazione potremmo dire estendersi fino alla rivoluzione digitale, invece al di fuori degli intenti di trattazione di questo progetto.

STORIA ED EVOLUZIONE DEI FORMATI CINEMATOGRAFICI, PARTE III: ULTRA PANAVISION 70, IMAX, TECHNISCOPE, UNIVISIUM

Che ruolo hanno giocato i formati nella nascita della concezione moderna di Cinema? A quali necessità la loro evoluzione ha risposto, e dove si pone il confine tra orientamento artistico e perfezionamento tecnico?
Eccoci dunque all’ultimo capitolo del nostro viaggio nell’universo dei formati e delle tecnologie che hanno dato vita al Cinema sin dalla sua nascita.
Con i precedenti capitoli ci siamo fermati a ridosso degli anni ’60, con la rivoluzione panoramica già avviata e sviluppata in una miriade di forme e modalità che troveranno la propria affermazione o decadenza nei decenni a venire.
Da qui ricominciamo dunque la tournée, con il formato che si impose verso la fine degli anni ’50 come la migliore evoluzione dei vari Cinerama, Cinemascope e Todd-AO: l’Ultra Panavision 70.

Christopher Nolan IMAX Camera

Parte terza – L’epoca moderna
ovvero del perfezionamento tecnologico e delle nuove forme di Cinema

Robert Richardson (dop), sul set di The Hateful Eight (2015)

I. Ultra Panavision 70  - (70 mm)
Come già accennato in precedenza, quello dell’immediato dopoguerra fu un periodo di eccezionale fermento dell’industria cinematografica, che allora doveva fronteggiare la minaccia della televisione come pericoloso competitor nella sfera dell’intrattenimento.
Nel secondo capitolo abbiamo avuto modo di vedere come la pressione della concorrenza fu incanalata dagli studios di Hollywood (e non solo) nella ricerca di un’immagine che potesse differenziarsi distintamente dal formato semi-quadrato offerto dalla TV: fu questa, tra le altre, una delle ragioni all’origine dell’introduzione del rivoluzionario formato panoramico.
Nel 1957, Panavision introduce il sistema che di lì a poco diventerà tra i formati di maggior successo di sempre: l’Ultra Panavision 70, inizialmente chiamato MGM Camera 65.
Come suggerisce il nome, il sistema utilizzava pellicole a grande formato (65mm in camera), che garantivano l’eccezionale risoluzione su cui il marketing odierno continua a basare intere campagne di promozione ogni qualvolta il Quentin Tarantino di turno decide di girare in questo formato.
Poster italiano de La Battaglia dei Giganti (1965). Visibili in basso i loghi di Cinerama, Technicolor e Ultra-Panavision
Il lettore attento ricorderà dai capitoli precedenti che da sé questa fu la soluzione adottata vent’anni prima per ricreare un’immagine più ampia del tradizionale 1.37:1, proposta, tra gli altri, da Mike Todd con il suo Todd-AO.
L’alternativa, avanzata con circa un lustro d’anticipo rispetto a Panavision, era costituita dal più laborioso Cinemascope che impiegava, sia in fase di ripresa che proiezione, un sistema squeeze and de-squeeze ("schiaccia e distendi") a lenti anamorfiche, ricreando l’effetto panoramico su negativo 35mm.
Ebbene, Ultra Panavision 70 combina le due soluzioni, utilizzando pellicola a grande formato e le proprie lenti anamorfiche dotate di uno squeeze factor di 1.25.
Lo spettacolare risultato, ottenuto fondendo caratteristiche dei supporti rivali, offriva l’aspect ratio più estrema sul mercato (2.76:1), mentre l’eccezionale resa ottica delle lenti Panavision eliminò praticamente del tutto le aberrazioni cromatiche e l’eccesso di grana dalle immagini.
Inoltre, l’Ultra Panavision 70 godeva di due ulteriori vantaggi che ne facilitavano la diffusione commerciale: in primis, era progettato per esser proiettato su schermo flat (a differenza degli esperimenti Cinerama e Todd-AO), rendendo l’adozione meno onerosa per i distributori; in secondo luogo, prevedeva l’utilizzo di un frame rate standard di 24 fotogrammi al secondo (fps), evitando così di incappare in problematiche simili a quelle del Todd-AO.

Frame da una scena di Ben-Hur (1959)

Film rilevanti 
Tra le produzioni più rilevanti in Ultra Panavision 70 compare di certo il capolavoro di William Wyler, Ben-Hur (1959), colossal ambientato nella Roma imperiale che stabilì anche il record di Oscar vinti (11), record tutt’oggi imbattuto ed eguagliato solo da Titanic (1997) e Il Signore degli Anelli - Il Ritorno del Re (2003).
Per Ben-Hur, MGM e Panavision vinsero inoltre uno speciale premio tecnico dedicato appunto all’evoluzione del processo fotografico anamorfico introdotto in quegli anni.
Altri titoli degni di nota sono Gli ammutinati del Bounty (1962), film epico diretto da Lewis Milestone con Marlon Brando e Richard Harris, e La Battaglia dei Giganti (1965), film storico sulla Seconda Guerra Mondiale con protagonista un brillante Henry Fonda.
Infine, dopo quasi mezzo secolo dall’ultimo utilizzo, Quentin Tarantino lo ha prescelto come cornice del suo ottavo film, The Hateful Eight (2015), girando interamente in Ultra Panavision 70, mentre i fratelli Russo ne hanno occasionalmente impiegato le lenti nei due capitoli finali della tetralogia degli Avengers (2018, 2019), girando però la maggior parte su supporto IMAX digitale, come vedremo più avanti
II. Techniscope 
Abbiamo visto come il centro gravitazionale dell’energia innovatrice di questi anni sia stata immancabilmente Hollywood, terra promessa dello show business e catalizzatore di tutto ciò che ruota nell’orbita dell’intrattenimento.
Il Cinema, tuttavia, parla una lingua universale, come ha avuto modo di ricordarci ultimamente il pluripremiato regista coreano Bong Joon-ho, e da tale andava sviluppandosi in tutto il mondo secondo le sfumature e le declinazioni espressive della creatività di popoli diversi.
È così che intorno al 1960, la divisione italiana della Technicolor introduce un formato cinematografico destinato a divenire iconico, oltre che di grande successo almeno fino all’inizio degli anni ’80: il Techniscope.
Volendo trovare affinità o azzardare qualche analogia tra invenzione e inventori, il Techniscope rappresentò molto di ciò che contraddistingueva i caratteri del cinema italiano cui si rivolgeva; esso potrebbe difatti essere considerato una mutazione naturale, un’evoluzione spontanea delle necessità pratiche che il fare Cinema in Italia implicava.

Fotogramma restaurato di C'era una volta il West (1968), di Sergio Leone

Pertanto, Techniscope non fu soltanto un efficace medium traspositivo delle velleità artistiche dei cineasti nostrani (e non solo), ma corrispose anche ad un pragmatismo tangibile, materiale, insomma a un’esigenza finanziaria che inesorabilmente contraddistingueva una frazione sostanziale delle produzioni cinematografiche del tempo.
La convenienza del Techniscope risiedeva principalmente nella sua economicità: pur non rinunciando all’ormai indispensabile formato panoramico (fino ad un rapporto d’aspetto di 2.39:1), i tecnici italiani riuscirono a combinare la pellicola 35mm (significativamente meno cara) e le lenti sferiche, che permettevano di evitare le onerose royalties per l’utilizzo di processi brevettati come quelli Panavision.
Inoltre, e qui c’è la genialità del Techniscope, il film impiegato aveva solo due perforazioni per fotogramma invece che le consuete quattro.
Insomma, Technicolor Italia rivelò un modo, alquanto semplice, di ottenere un widescreen a partire da un negativo 35mm e lenti non anamorfiche: semplicemente tagliando l’altezza del frame.
Il beneficio monetario di quest’innovazione fu chiaramente enorme: mantenendo la frequenza costante a 24 fps (come Techniscope faceva), per girare lo stesso minutaggio occorreva la metà della pellicola.
Ciò ovviamente non avveniva senza costi e anzi implicava svantaggi che furono, in ultima analisi, probabilmente i limiti alla sua diffusione in generi al di fuori di quelli in cui fu inizialmente impiegato: in primis, la risoluzione.
L’utilizzo di un’area significativamente minore di superficie fotosensibile (la metà) comportava un’inevitabile minor resa dei dettagli, una minore sharpness, possibilmente più problemi di grana (a parità di velocità della pellicola) e aberrazioni cromatiche più evidenti.
Occorre notare come Techniscope costituisse un immenso vantaggio dal lato della produzione, mentre richiedesse degli aggiustamenti in fase di distribuzione, dove la maggior parte dei proiettori erano attrezzati per proiettare rulli da quattro perforazioni per fotogramma.
Qui dunque avveniva l’anamorfizzazione (di fattore 2) della stampa originale e si trasferiva così il film su supporto a 4 perforazioni, pronto per essere distribuito e proiettato.
È in particolare in questo stadio che la maggior parte dei sopracitati difetti tecnici venivano a galla.
Esempio di positivo originale e relativo adattamento anamorfico su supporto 4-perf per proiezione
Film rilevanti 
Nonostante le evidenti limitazioni del formato, Techniscope ebbe un successo straordinario, molto al di sopra delle aspettative iniziali.
Nel 2011, IMDb stilò una lista di oltre 1200 film girati in Techniscope.
Moltissimi meriterebbero di essere citati, a partire da tutti gli Spaghetti Western di Sergio Leone, vero e proprio manifesto del nostro Cinema per decenni.
Va da sé che la caratteristica di maggiore appeal di Techniscope era certamente il vantaggio economico, che permetteva a produzioni a basso budget di realizzare film altrimenti impraticabili: è infatti facilmente constatabile la grande diffusione del formato fra i B-movies americani, spesso di genere horror o azione.
Dietro le quinte di American Graffiti (1973), di George Lucas
Le immagini prodotte in Techniscope, come accennato di minor qualità rispetto al coevo Cinemascope o ad un qualsiasi 70mm, non sempre costituivano una limitazione.
È questo il caso ad esempio di American Graffiti (1973) di George Lucas, che fu girato in Techniscope deliberatamente al fine di ottenere un effetto più sketchy, documentaristico, a discapito della canonica bellezza delle inquadrature; anche Titanic (1997), nelle sequenze sott’acqua fa uso di un principio simile.
L’utilizzo del formato si è preservato a lungo e tutt’oggi risulta saltuariamente in uso; produzioni moderne degne di note includono il vincitore dell'Oscar come Miglior Film Argo (2012), Oldboy (2013) di Spike Lee e Tonya (2017) con protagonista Margot Robbie.
III. IMAX
Eccoci dunque al momento forse più atteso di questa breve antologia, quello per cui qualche lettore ha forse cominciato a seguirla e si è sorbito - mi auguro con interesse o quantomeno piacere - ben dieci formati cinematografici dalla fine del XIX secolo fino al 1970.
È questo infatti l’anno in cui la IMAX Corporation introduce l’omonimo formato, destinato a un’ascesa precipitosa e ad un successo destinato a durare fino ai nostri giorni.
Mi rivolgerò qui al segmento principe del formato, l’IMAX 70mm, magari accennando alle evoluzioni e modifiche tecniche realizzatesi prima e dopo l’avvento del digitale.
IMAX è un formato tout court: prevede una configurazione specifica di ripresa, proiezione, resa audiovisiva e perfino di una serie di espedienti ergonomici finalizzati all’accrescimento della sensazione di inclusività e immersione dello spettatore.
Insomma: IMAX è l’insieme di tutto ciò che si vive dall’ingresso in sala fino ai titoli di coda.
In seguito a qualche sparuto tentativo all’inizio del secolo e nella seconda metà degli anni '50, IMAX ripropose l’horizontal pulldown, ovvero lo scorrimento orizzontale della pellicola, riuscendo finalmente a imporre un nuovo modello nell’industria.
Così come era stato inizialmente concepito, IMAX prevedeva che una pellicola 70mm scorresse orizzontalmente allo stesso frame rate di 24 fps delle cineprese abituali.
Seguendo questo sistema, l’area fotosensibile esposta risultava essere nove volte superiore a quella di un tradizionale 35mm, e fino a tre volte quella di un grande formato 70mm non-IMAX.
Difatti, mentre i 70mm precedenti esibivano 5 perforazioni verticali, i film IMAX ne presentano 15, poste ovviamente sopra e sotto ogni fotogramma.
La risoluzione risultante è tra le più alte mai raggiunte da un grande schermo (stime parlano di 18K teorici, 12 effettivi), rendendo anche l’esperienza dello spettatore più incolto percepibilmente diversa da qualsiasi forma di home-video o da regolari proiezioni in sala.
È inoltre interessante osservarne l’aspect ratio conseguente, che per la prima volta da decenni si muove nella direzione opposta e torna ad un formato semi-quadrato, con un rapporto di 1.43:1 (in analogico, mentre in digitale tocca 1.9:1).
Come sempre accade, però, ai vantaggi di resa corrispondono complicazioni logistiche ed economiche che resero i primi anni di IMAX di scarso successo, fino a venire relegato in segmenti di mercato altamente specializzati, documentaristici o scientifici, dove la minor durata dei filmati e la necessità di ottenere la migliore immagine possibile giustificavano l’impiego del formato.
Esempio di fotogramma IMAX, da Interstellar (2014)
Le difficoltà tecniche che avevano impedito la realizzazione di un progetto analogo precedentemente risiedono nella complessa meccanica che le macchine da presa e i proiettori IMAX celano dietro i loro imponenti telai.
Ad esempio, a causa della maggiore superficie esposta del film per mantenere il frame rate a 24 fps occorreva una velocità di scorrimento tripla, provocando non pochi problemi di surriscaldamento e potenzialmente tearing (strappo) della pellicola.
O ancora, un corollario del procedimento era la necessità di una quantità tripla di pellicola per girare lo stesso minutaggio rispetto a un 70mm tradizionale (molto di più se rapportato all’assai più diffuso 35mm).
Altra peculiarità di IMAX è la totale mancanza di tracce audio su pellicola, che invece corrono distaccatamente in parallelo su sei piste magnetiche e sempre all’interno dello stesso macro-apparecchio, al fine di massimizzare la superficie di esposizione e di impressione, anche se dall’inizio degli anni ’90 si tende a preferire un sistema digitale alternativo per la resa audio.
Il direttore della fotografia Hoyte van Hoytema: uno che i 30 chili di IMAX se li mette anche in spalla!
Ancora, una caratteristica molto nota e un’immancabile difficoltà in fase di lavorazione è il fatto che finanche le versioni più moderne di cinepresa IMAX sono incredibilmente rumorose, rendendole inadatte, ad esempio, a scene di dialogo intenso; inoltre, la sopra accennata complessità meccanica le rende straordinariamente pesanti, impedendo usi eccessivamente dinamici della macchina da presa.
Dunkirk (2018), che tutt’oggi detiene il record di minutaggio 70mm IMAX film (79 minuti), offre un campione quasi scolastico di tutte le problematiche causate da IMAX: le scene di dialogo sono quasi esclusivamente state girate in 70mm tradizionale a causa del frastuono, così come alcune delle sequenze particolarmente movimentate per cui era necessaria una ripresa mobile.
A tal proposito vale la pena raccontare un aneddoto (CineFacts!) curioso: Christopher Nolan, insieme al sontuoso Hoyte van Hoytema alla fotografia, per meglio comprendere come girare le sequenze in nave ricevette la consulenza di... Steven Spielberg e Ron Howard!
Guida ai formati realizzata dalla distribuzione di Dunkirk (2017)
Insomma, le esigenze di produzione di IMAX erano (e sono) una discreta gatta da pelare per produttori e troupe, in particolare alla luce del fatto che sono davvero poche, in proporzione, le strutture attrezzate per una distribuzione coerente con il formato.
Oltre ai particolari proiettori, infatti, le sale progettate secondo il brevetto IMAX hanno caratteristiche significativamente differenti da quelle tradizionali.
Lo schermo, molto più grande e quadrato, è lievemente curvato e inclinato in avanti; l’angolo secondo cui le file di sedute sono disposte arriva fino a 30°, permettendo allo spettatore di sovrastare la fila immediatamente davanti e così fronteggiare direttamente lo schermo; la distanza tra la platea e lo schermo è poi molto ridotta, rendendo l’esperienza straordinariamente immersiva.
Questo insieme di necessità ha reso impraticabile una diffusione capillare del modello e, come abbiamo visto in altre istanze, ne ha conseguentemente limitato anche l’uso in lavorazione: osserviamo dunque anche qui, come per il Kinetoscopio o il Cinerama, l’importanza del connubio tra tecnica e logistica, tra resa audiovisiva e economicità delle soluzioni.
Basti pensare che in Italia le sale IMAX opportunamente equipaggiate si contano sulle dita di una mano, e solo una (all'Oltremare di Riccione, ora chiusa) permetteva la proiezione del nativo IMAX 70mm.
Come prevedibile, nei decenni IMAX si è evoluto in varie forme e modi, con evoluzioni talvolta ben accolte, altre meno.
Tra le versioni che si sono succedute meritano menzione l’Omnimax, versione dotata di lenti anamorfiche per un potente effetto fisheye su schermi eccezionalmente curvi, spesso in imponenti strutture emisferiche (planetarium o simili); e l’IMAX 3D, in cui ritroviamo un qualcosa di simile all’espediente principe di Cinerama, ovvero l’impiego di più rulli (due) in simultanea, con lo scopo di emulare il modello di vista binoculare umana così da ricreare l’illusione della tridimensionalità
La sala IMAX più grande del Regno Unito, presso il British Film Institute di Londra. Notare: la struttura accoglie un'unica sala
Film rilevanti
Oltre al già citato Dunkirk (2017), vincitore agli Academy Awards di tre statuette, buona parte della filmografia del regista britannico ha visto (e vedrà) questa tecnologia come protagonista, e ne sono esempi illustri The Dark Knight (2008), Interstellar (2014) e l’attesissimo Tenet (2020).
Parzialmente girati in IMAX 70mm sono anche First Man - Il Primo Uomo (2018) del giovane prodigio franco-americano Damien Chazelle, e Star Wars: Gli Ultimi Jedi (2017), secondo capitolo della trilogia dei sequel di Guerre Stellari recentemente conclusasi.
Dietro le quinte di First Man (2018), la cui splendida sequenza lunare è interamente girata in IMAX 70mm
Inoltre, come precedentemente accennato, IMAX è stato di frequente utilizzato per documentari e riprese scientifiche, in particolare nei primi decenni dalla sua introduzione.
Infine, per quanto riguarda l’evoluzione non analogica del formato, Avengers: Infinity War (2018) e Avengers: Endgame (2019) sono interamente girati secondo l’evoluzione digitale IMAX, con l’ausilio delle appositamente costruite cineprese ARRI.
Conclusione 
Il nostro percorso attraverso la storia e l’evoluzione dei formati cinematografici potrebbe interrompersi qui.
Abbiamo coperto buona parte delle declinazioni in cui il Cinema, inteso come esercizio globale, ha avuto modo di esplorare e di esprimersi a cavallo di tre secoli.
Va da sé che le possibilità creative e immaginifiche alla base della composizione dell’immagine, del sonoro e dell’esperienza di sala sono potenzialmente illimitate, discendendo da un insieme costantemente cangiante di esigenze narrative ed estetiche a loro volta corrispondenti alle evoluzioni delle sensibilità degli autori e delle epoche.
È frutto di questo continuo mutamento il fiorire di decine di altri formati che non abbiamo direttamente approfondito, alcuni similmente iconici, dal Technirama al Super35, passando per VistaVision e Super8.
Ho ritenuto, con questa selezione di undici formati, individuare quelli che a mio modo di vedere hanno contribuito a trasformare il modo di pensare alla lavorazione, alla post-produzione e alla proiezione delle pellicole cinematografiche.
Appropriandomi di un’importante concetto di un filosofo della scienza americano, Thomas Kuhn, ho cercato di identificare i paradigm shifts (cambiamenti di paradigma) nella storia dei formati, ovvero i nodi chiave attorno a cui il modo di intendere un’idea - quella della resa audiovisiva del film – ha subìto dei mutamenti fondamentali e duraturi per molteplici, disparate ragioni.
Così potremmo pensare ad esempio all’evoluzione dalla fruizione mono-spettatore del Kinetoscopio a quella collettiva del Cinematografo, o alla rivoluzione del sonoro, o ancora allo sviluppo del formato panoramico.
Passaggi che hanno segnato un ripensamento radicale, quintessenziale, che a volte sono stati accompagnati da popolarità immediata e universale e a volte da una tenace ritrosia dello status quo, e che in maniera sovversiva o reazionaria hanno inoculato nella sensibilità del tempo la necessità del divenire.  
Mi sembra dunque giusto concludere con… un capriccio.
Non è chiaramente mia intenzione sminuire in alcun modo l’ultimo formato che vorrei presentare, né tantomeno svalutarne i meriti artistici, ma credo sia pacifico ammettere che Univisium, introdotto nel 1998 dal nostro Vittorio Storaro, non abbia (per il momento) incarnato alcun cambiamento di paradigma o particolare sovvertimento del modo di concepire un film.
Tuttavia… a me piace molto, e con esso chiuderò questa carrellata.
V. Univisium
In un articolo comparso su American society of Cinematographer nel giugno del 1998, Vittorio Storaro propose un modello di formato che sperava potesse costituire un nuovo standard di lavorazione e fruizione dei prodotti cinematografici.
Il direttore della fotografia italiano - anche se lui preferisce essere chiamato "autore della fotografia" - parte da un assunto fondamentale e su esso elabora:
"Recentemente, qualsiasi film – non importa quanto lungo o corto, di successo o meno – dopo una parentesi molto breve sul grande schermo, godrà di una vita molto più lunga su uno schermo elettronico.
Oggi la prima copia [ndr: prima stampa del film] è prodotta per ambedue questi supporti… e avendo due medium, con due differenti rapporti d’aspetto, tutti noi (registi, DOP, operatori, etc.) condividiamo l’incubo di dover scendere a compromessi nella composizione dell’immagine.
Guardando attraverso un mirino, una macchina o un monitor, siamo costantemente alle prese con almeno due immagini dello stesso soggetto."
È su questa intuizione che Storaro muove la sua proposta: un formato unico con rapporto 2:1, a tre perforazioni.
Pur non essendo la prima volta che tale aspect ratio veniva avanzata nel panorama moderno (sia Universal che RKO avevano già prodotto pellicole di queste dimensioni), Storaro giunge a questa proporzione facendo una semplice media aritmetica tra i rapporti esistenti di 65mm e HDV (televisivo), rispettivamente 2,21:1 e 1,78:1.
Esempio di positivo Univisium. Ai lati si scorgono le due soundtracks SDDS. Cortesia di Adakin Productions
Inoltre nota che, in confronto con i più diffusi sistemi panoramici, Univisium presenta svariati vantaggi: garantisce significativi risparmi in pellicola e in attrezzatura, dato che non necessita neanche di lenti anamorfiche dialcun tipo, assicura una maggiore profondità di campo a causa delle peculiarità ottiche delle lenti sferiche e consente di girare in contesti meno luminosi, incrementando il passthrough di luce sul negativo.
Infine, non presentando spazio per le strips ottiche, Storaro prevede che il sonoro venga registrato e aggiunto separatamente in digitale.
Film rilevanti 
Nello stesso 1998 il direttore della fotografia romano si occupò del dramma musicale Tango (1998) diretto da Carlos Saura, non ottenendo però troppa attenzione per il novello aspetto dell’immagine.
Curò inoltre le riedizioni DVD e Bluray di alcuni importanti film a cui aveva lavorato e per cui aveva vinto (per tutti) l’Oscar per la Miglior Fotografia: è il caso per Apocalypse Now (1979), L’ultimo imperatore (1987) e Reds (1981), giusto per nominarne qualcuno.
Durante i primi anni 2000 il formato cadde nel dimenticatoio, fino a essere riscoperto una decina d’anni fa e da allora essere ritornato in voga in moltissime produzioni hollywoodiane e non.
Inoltre, e vale la pena rimarcarlo essendo di fatto la ragione di fondo per la sua introduzione, la sua diffusione recente ha visto interessate sia produzioni cinematografiche che televisive, con un’abbondanza di serie TV come House of Cards (2013), Altered Carbon (2018), il recentemente pluripremiato Chernobyl (2019) e molte altre.
Lungometraggi degni di nota che adottano la soluzione di Storaro (o sue declinazioni digitali) sono Green Book (2018), Oscar al Miglior Film; Midsommar (2019), l’horror avant-garde dell’emergente Ari Aster alla sua seconda regia; Se la strada potesse parlare (2018), gioiello un po’ trascurato del fenomenale Barry Jenkins - incluso dal sottoscritto nella classifica dei migliori film del 2019 - e infine praticamente tutti i lavori di cui si è occupato direttamente Vittorio Storaro negli ultimi due decenni, incluse le sue ultime quattro collaborazioni con Woody Allen.

 13 gennaio 2020 a cura di Francesco Amodeo - cinefact.it

Giunge al termine questa cavalcata in tre atti nella storia dei formati, le cornici visive e sonore attraverso le quali ci è concesso di godere della bellezza del Cinema, di esser soggetti alla sua potenza narrativa e a tutte le sue doti espressive.In più di centoventi anni e a cavallo di tre secoli abbiamo avuto modo di vedere in che modo è mutato il formato e il ruolo che esso ha giocato nelle vicissitudini artistiche e industriali della Storia del Cinema, quali sono state le risposte del pubblico alle forme che ha assunto, e come esso abbia direttamente influenzato il modo di pensare all’esperienza cinematografica… persino arrivando a salvarla, in un certo momento.Mi auguro di essere riuscito in qualche modo a stimolare la curiosità o l’interesse del Lettore, che spero possa essere ispirato d’ora in poi a sbirciare nelle specifiche tecniche di qualche film di suo interesse, o a notarne il rapporto d’aspetto quando le luci si spengono e il proiettore aggiusta le dimensioni del quadro tra lievi sferragliamenti.Ancora più importante spero d’aver dato un’idea, seppur in minima parte, del grande lavoro che c'è dietro la resa audiovisiva di ogni film, e di quanto esso vada in un’unica direzione: l’esperienza di sala.Non importa quanto sofisticata la tecnologia home-theatre possa diventare: l’enorme capitale di conoscenze e abilità coinvolte nella produzione di un film, dal direttore della fotografia al primo operatore, dal video-assist fino all’ultimo macchinista, si rivolge alla riproduzione in sala come obiettivo ultimo del proprio operato, rendendone dunque irreplicabile l’esperienza.Ciò assume un significato aggiuntivo quando si parla di proiezione di pellicola - l’unica trattata in questi tre articoli - di cui tra l’altro non esistono surrogati domestici.Dunque andate al cinema, e lasciatevi sedurre dalla sua magia, da quell’ingegneristica capacità di illudere e di sospendere l’incredulità… dopotutto, se siete arrivati a leggere fin qui, siete già sulla buona strada.
Dunque andate al cinema, e lasciatevi sedurre dalla sua magia, da quell’ingegneristica capacità di illudere e di sospendere l’incredulità… dopotutto, se siete arrivati a leggere fin qui, siete già sulla buona strada.
La storia dei formati 4:3 e 16:9
Da dove derivano i formati 4:3 e 16:9 di monitor, TV e video?
Scopriamo la storia e le motivazioni dietro a questi formati.